The end is near. La danza secondo Roberto Castello
Passa anche da Verona “In girum imus nocte et consumimur igni”, lo spettacolo che ha ricevuto la menzione speciale al BeFestival di Birmingham nel 2016. Uno spettacolo in cui la danza di Roberto Castello conferma la sua vocazione concettuale ed esistenzialista.
La ricorderemo per un po’ la camminata di questi pellegrini afflitti, anime in pena sotto una pioggia grigia di pixel. Ci è entrata dentro. Peccato averlo visto in pochi e, non ce ne voglia il resto del cartellone della danza del Camploy, il lavoro di Roberto Castello è una sintesi assoluta che vanifica quella danza capace di avere ancora fiducia in se stessa. Qui siamo in un cul de sac, l’umanità è allo stremo, avvilita dal suo stesso progresso, abbattuta dalle abitudini, dai ritmi, dai tic della modernità. Quattro danzatori (Alice Giuliani, Mariano Nieddu, Giselda Ranieri e Ilenia Romano), quattro sopravvissuti della tribù umana (non a caso le ossessioni ritmiche ci riportano a una ritualità ancestrale), quattro pulsazioni cardiache assetate di luce e respiro.
SENZA VIA D’USCITA
In girum imus nocte et consumimur igni, recita il titolo palindromo, perché nemmeno il titolo è una via d’uscita. Si sta, in camere di luce grigiastra disegnate dai video proiettori, finestre di quadrati che invertono Mondrian dal bianco al nero. Qui si va al nero, senza tante dissolvenze ma con cesure secche. Come in un dramma di Kantor. Frammenti per apparizioni di sommersi (senza essere salvati), derive da Cecità di Saramago, dirette da una voce esterna che sancisce l’inizio e la fine di ogni movimento. L’uomo ha raggiunto faticosamente la posizione eretta, ma si è perduto nei tic, nelle idiozie che consumano le nostre quotidianità: ecco l’ironia del coreografo di Aldes. Una tazzina di caffè al bar, una serata in discoteca, l’affannarsi sulle strade del traffico o delle alienanti catene di montaggio delle nostre carriere. Il repertorio dello stupidario umano è denudato senza cattiveria ma anche senza pietà. C’è una meravigliosa ferocia che lascia in balia di un loop elettronico questi borghesi di Rodin che hanno rinunciato alla dignità.
PROFEZIE EMPATICHE
Le diapositive incorniciate dai sagomatori sono una claustrofobia di luce, vetrini in cui inutilmente si affanna un’umanità che Goya chiamò gli Orrori della guerra. Anche qui figurine, uscite da un vestibolo di dolore. Bidimensionalità fisica nella tridimensionalità opaca di una luce fioca.
Lo sguardo che ci chiede Castello è empatico, vorremmo fermare l’invisibile nastro su cui anche noi trasporteremo fra poco il nostro futuro.
Perché anche questo lavoro di Castello è profetico, ed è forse per questo che gira già da almeno due anni. Siamo sperduti, sfiniti, esausti anche noi e l’osceno, la violenza dei rapporti, quel bestiale ci appartengono fino alle ossa.
Simone Azzoni
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